La guerra in Ucraina infuria da quasi un anno e tutte gli analisti concordano sul fatto che durerà ancora a lungo (a meno di eventi imprevedibili, come la morte improvvisa di Putin per cause naturali). Tuttavia, pur nella angoscia per quello che sta succedendo, sarebbe opportuno cominciare ad allungare lo sguardo a quello che, inevitabilmente, verrà dopo. Putin, che non a caso viene sempre più spesso paragonato a uno zar, ha gettato il suo paese in una guerra di stampo novecentesco, più simile alla Prima guerra mondiale che agli scontri cui eravamo abituati ad assistere negli ultimi anni. I resoconti dal campo parlano di assalti quasi all’arma bianca in cui le truppe russe meno esperte e meno preparare vengono lanciate nel miasorubka, il “tritacarne” della prima linea che ricorda in modo impressionante i massacri di Verdun e della Somme. Accanto a questa pressione costante sul terreno ci sono i bombardamenti con i missili, che colpiscono con poca precisione obiettivi in tutta l’Ucraina, e infine la scia delle violenze senza volto e delle torture innominabili sulle persone comuni che abitavano e abitano quelle terre.
Tutto questo, è ovvio, lascerà un segno. è stato detto e ridetto che se Putin voleva recuperare il paese Ucraina riportandolo nell’area di controllo moscovita ha ottenuto l’effetto esattamente opposto, scavando un baratro emotivo tra i due popoli.
Eppure tutto questo finirà, e bisognerà allacciare di nuovo le relazioni con chi vive nell’immenso spazio tra il Volga e il Pacifico. Come si potrà fare a superare l’enorme zavorra che la guerra lascerà in eredità?
Non è un problema nuovo. Tutte le dittature, soprattutto quando finiscono di colpo, lasciano dietro di sè un problema etico enorme: perdonare o condannare chi si era schierato col dittatore? Una vera dittatura infatti costringe tutti a piegarsi al suo volere, altrimenti non è un vera dittatura, e d’altra parte nemmeno le dittature più violente possono reggersi a lungo senza una qualche forma di consenso da parte della popolazione. In una dittatura, tutti sono coinvolti, a gradi diversi di connivenza. L’esperienza del nazismo e del fascismo sono esemplari da questo punto di vista. Se dopo la fine di una dittatura si dovesse processare chiunque abbia accettato la convivenza con il regime, bisognerebbe mandare a processo tutta la popolazione sopra i 15 anni. Non a caso uno dei primi atti del governo Giolitti dopo la fine della Seconda guerra mondiale fu la cosiddetta amnistia Togliatti (molto contestata).
La evoluzione del quadro politico internazionale in quegli anni, con il rapido raffreddamento dei rapporti con la Unione Sovietica e il loro evolvere verso la guerra fredda, favorirono il “recupero” di italiani e tedeschi in chiave anticomunista. Nacque così la mitologia degli “italiani brava gente”: un modo per separare le responsabilità del conflitto, addossandole solo a Mussolini e ai fascisti. Non si trattava certo del risultato di una pacata analisi storica (purtroppo le truppe italiane si macchiarono eccome di gravi delitti, uno su tutti il massacro di Debra Libanòs in Etiopia) ma di una sorta di meccanismo psicologico di autodifesa: sono state fatte cose terribili in guerra, è vero, ma non siamo stati noi, sono stati “loro”, i fascisti appunto.
Non sono un esperto di cose russe. Tuttavia mi pare probabile che anche in questo caso si arriverà a qualcosa di simile, perché è impossibile condannare in blocco un popolo di 140 milioni di persone, chiuderlo a tempo indeterminato in una “bolla” di sospensione dalle relazioni umane ed economiche con l’occidente e rinunciare a quello di buono che può venire da lui. Per i più cinici, si tratterà dei soldi; per i più romantici, della eredità artistica della letteratura russa; per gli altri, dei normali vantaggi che si hanno quando ci si guarda con curiosità reciproca. Già Sting cantava l’ovvio: “Russians love their children too” per dire che anche nei momenti peggiori rimane una base di umanità comune. Forse anche noi finiremo in futuro per chiamare i russi “brava gente”.